Ezio Santin – Fagottino di pasta fresca ai frutti di mare e caviale Oscietra

A.B/C (Ars bibendi/coquendi)

«La prima condizione per portare qualcosa nel tuo cuore e nella tua testa è portare qualcosa nel tuo stomaco» (Ludwig Feuerbach)
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«E di questi cotali sono molti idioti che non saprebbero l’a.b.c. e vorrebbero disputare in geometria, in astrologia e in fisica». Così scrive Dante nel Convivio (IV, xv, 16) e che questa frase sia sempre d’attualità non è difficile da dimostrare. Basta fare un salto nei chiassosi pollai televisivi in cui pullulano nugoli di improvvisati cultori di ogni materia, pronti a salire in cattedra pontificando su tutto, senza però neppure avere un’idea di quello che stanno dicendo.
In questi contesti, gli sproloqui – quasi sempre urlati – abbondano e si giocano in tutti i campi dello scibile umano: che si stia trattando di temi alti o di argomenti più modesti il risultato non cambia e rimanda alla lucida osservazione dantesca formulata settecento anni fa.
È allora necessario restare coi piedi per terra, partendo dalla conoscenza dell’abbiccì. 

RISPETTO DELLA MATERIA PRIMA

Quello che etichetta questa sezione è scritto «A.B/C» e sta per «Ars bibendi/coquendi, «l’arte di bere e cucinare». Bere e mangiare sono consuetudini obbligate, riti necessari per la sopravvivenza e il fondamento di una vita sana sta nell’equilibrata e corretta alimentazione, che parte dal rispetto assoluto della materia prima: «Se la conosciamo – amava ripetere Gualtiero Marchesinon possiamo distruggerla, come invece mi capita di vedere quasi sempre fare».

Con Gualtiero Marchesi, durante una intervista del novembre 2016 al Marchesino

Negli ultimi anni della sua vita, il cuoco italiano più famoso al mondo girava con un foglietto che, all’occorrenza, sfoderava dal taschino per leggere questa traduzione di un brano delle lettere di Seneca a Lucilio: «Non c’è da stupirsi se i medici avevano meno lavoro. Allora il corpo degli uomini era ancora sano e forte. Il cibo era semplice e non corrotto dalle pretese e dal piacere. Ma quando gli uomini iniziarono a utilizzare infiniti condimenti per stuzzicare l’appetito, ciò che prima era cibo per commensali affamati divenne un peso per stomaci sazi» (Epistularum moralium ad Lucilium, libro XV, lettera 95, testo originale: «Nec est mirum tunc illam minus negotii habuisse firmis adhuc solidisque corporibus et facili cibo nec per artem voluptatemque corrupto: qui postquam coepit non ad tollendam sed ad inritandam famem quaeri et inventae sunt mille conditurae quibus aviditas excitaretur, quae desiderantibus alimenta erant onera sunt plenis»).
In una lettera in cui si afferma che le norme generali della filosofia sono indispensabili per la felicità, non manca un riferimento al nutrimento del corpo: quello semplice e non alterato dagli artifici del piacere fa il suo dovere – soddisfando la fame – e toglie il medico di torno. I mille condimenti escogitati per eccitare l’avidità rappresentano un danno perché quelli che erano alimento per un ventre digiuno sono un peso per un ventre pieno.
Mangiare con moderazione, rispettando in cucina la materia, salutare nella sua schietta semplicità, e bere acqua, idratandosi adeguatamente, sono l’abbiccì del vivere sano e, dunque, del vivere felicemente.

IPPOCRATE E LA RICERCA SULL’UOMO

È una constatazione banale anche se, purtroppo, non sempre ci si ricorda che siamo proprio noi gli artefici della nostra salute attraverso le scelte di vita assunte, di volta in volta, pure a tavola. In questo senso, era già stato chiarissimo Ippocrate negli ultimi decenni del V secolo avanti Cristo, affermando che la conoscenza della natura è necessaria al medico, il quale, per adempiere ai suoi doveri, deve svolgere una ricerca seria di che cosa è l’uomo in rapporto a ciò che mangia e beve, di che cosa in rapporto al restante modo di vita e di quali conseguenze deriveranno a ciascuno da parte di ognuno di questi elementi (Ippocrate, L’antica medicina, capitolo 20. Per la traduzione letterale rimando a quella di Alessandro Lami, contenuta in Ippocrate, Testi di medicina greca, pubblicato dalla Bur nel 1983 con successive ristampe).

IL CIBO È (LINIZIO DELLA) CULTURA

Sapere che cos’è l’uomo in rapporto a ciò che mangia e beve non è solo una necessità per il medico, come aveva detto Ippocrate, ma è una priorità pure per l’antropologo, come ha dimostrato Claude Lévi-Strauss, nel suo celebre «Le cru et le cuit» («Il crudo e il cotto», 1964), primo dei quattro volumi delle Mythologiques: la cultura umana nasce nel momento del passaggio dal cibo crudo (naturale) a quello cotto (trasformazione culturale del cibo crudo attraverso il fuoco) e, mangiando, l’uomo non solo si sostenta, immagazzinando alimenti, ma li pensa, mantenendo con essi un rapporto simbolico.
Il cibo diventa così un elemento di identità sociale e culturale.
L’a.b.c del sapere è dunque il cibo e non solo perché «sapore è sapere», come sapeva bene Italo Calvino, puntuale nel porre in esergo al suo racconto «Sotto il sole giaguaro (Sapore Sapere»), questo passo, tratto dal «Dizionario dei sinonimi» di Niccolo Tommaseo: «Gustare, in genere, esercitare il senso del gusto, riceverne l’impressione, anco senza deliberato volere o senza riflessione poi. L’assaggio si fa più determinante a fin di gustare e di sapere quel che si gusta; o almeno denota che dell’impressione provata abbiamo un sentimento riflesso, un’idea, un principio d’esperienza. Quindi è che sapio, ai Latini, valeva in traslato sentir rettamente; e quindi il senso dell’italiano sapere, che da sé vale dottrina retta, e il prevalere della sapienza sopra la scienza».

DALLO STOMACO AL CUORE E ALLA TESTA

Il cibo è l’abbicì del sapere pure per un altro motivo: se il «principium essendi», «principio dell’essere», è anche «principium cognoscendi», «principio del conoscere», «l’inizio dell’esistenza è l’alimentazione, quindi il cibo è l’inizio del sapere».
Questo pensiero ineccepibile si trova in «Die Naturwissenschaft und die Revulotion» («La scienza naturale e la rivoluzione») apparso a puntate nel 1850 come recensione del libro di Jacob Moleschott «Lehre der Nahrungsmittel für das Volk» («Trattato degli alimenti per il popolo»). L’autore è il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach e il passo merita di essere letto nella versione originale: «Das Principium essendi ist auch das Principium cognoscendi. Der Anfang der Existenz ist aber die Ernährung; die Nahrung also der Anfang der Weisheit. Die erste Bedingung, daß du etwas in dein Herz und deinen Kopf bringst, ist: daß du etwas in deinen Magen bringst. “A Jove principium” hieß es sonst, aber jetzt hieß es: “a ventre principium”. Die alte Welt stellte den Leib auf den Kopf, die neue setzt den Kopf auf den Leib; die alte Welt ließ die Materie aus dem Geiste, die neue läßt den Geist aus der Materie entspringen. Die alte Weltordnung war eine phantastische und verkehrte, die neue ist eine natur und eben deswegen eine vernunftgemäße. Die alte Philosophie begann mit dem Denken, sie “wußte nur die Geister zu vergnügen und ließ darum die Menschen ohne Brot”; die neue beginnt mit Essen und Trinken». (Ludwig Feuerbach, «Die Naturwissenschaft und die Revulotion», 1850).
«Il principio essendi è anche principium cognoscendi. Ma l’inizio dell’esistenza è l’alimentazione, quindi il cibo è l’inizio del sapere. La prima condizione per portare qualcosa nel tuo cuore e nella tua testa è: portare qualcosa nel tuo stomaco. “A Jove Principium” [«da Giove il principio»] si usava dire, ma ora si dice: “a ventre principium” [dal ventre il principio]. Il vecchio mondo metteva il corpo sulla testa, il nuovo ha messo la testa sul corpo; il vecchio mondo lasciava che la materia uscisse dallo spirito, il nuovo fa scaturire lo spirito dalla materia. Il vecchio ordine mondiale era fantastico e capovolto, il nuovo è conforme alla natura e, proprio per questo, alla ragione. La vecchia filosofia è iniziata con il pensiero che “sapeva solo soddisfare gli spiriti e quindi lasciava le persone senza pane”; la nuova filosofia inizia con il mangiare e il bere».

L’UOMO È CIÒ CHE MANGIA

Il mangiare e il bere sono l’abbiccì della nuova filosofia per Feuerbach che proprio in «Die Naturwissenschaft und die Revulotion» mette il seme del suo celeberrimo «Der Mensch ist was er ißt», «l’uomo è ciò che mangia». Ma, di fatto, questa formula è intraducibile in italiano perché gioca sull’assonanza fra «ist» («è», terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo «sein», «essere») e «ißt» (scritto con la lettera ß – Eszett – a indicare la doppia «s» di «isst», terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo «essen», «mangiare»). Una ambiguità che il latino rende non solo foneticamente ma anche graficamente nell’espressione «homo est (terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo «esse», cioè «essere») quod est (stessa forma ma del verbo «edere», cioè «mangiare»)». Per cui «l’uomo è ciò che mangia» ma anche «l’uomo mangia ciò che è».
Poche righe prima di affermare che «il cibo è l’inizio del sapere» e che «la nuova filosofia comincia con il mangiare e il bere», Feuerbach spiega: «L’essere fa tutt’uno con il mangiare; essere significa mangiare: ciò che è [ist] mangia [ißt] e viene mangiato. Mangiare è la forma soggettiva, attiva dell’essere, essere mangiato è la forma oggettiva e passiva, ma entrambe sono inseparabili».
La traduzione è di Elisa Tetamo e si trova in Ludwig Feurbach, L’uomo è ciò che mangia, uscito nel 2017 per Bollati Boringhieri. Si tratta di una pubblicazione fondamentale non solo per l’illuminante saggio introduttivo del filosofo Andrea Tagliapietra, intitolato «La metafora gustosa», ma anche perché contiene, oltre a «Die Naturwissenschaft und die Revulotion», anche «Das Geheimmnis des Opfers, oder Der Mensch ist was er ißt», «Il mistero del sacrificio, ovvero l’uomo è ciò che mangia», uscito nel 1862, in cui Feurbach esplicita il senso simbolico della sua frase più conosciuta. Il testo originale del passo appena citato è questo: «Das Sein ist Eins mit dem Essen; Sein heißt Essen; was ist, ißt und wird gegessen. Essen ist die subjektive, tätige, Gegessenwerden die objektive, leidende Form des Seins, aber beides unzertrennlich».

CARNE, VEGETALI E IMMAGINARIO

Se «l’uomo è ciò che mangia», l’uomo allora è «un onnivoro che si nutre di carne, di vegetali e d’immaginario». Lo aveva notato il sociologo francese Claude Fischler: «L’alimentazione rinvia alla biologia ma, chiaramente, non si limita solo ad essa; il simbolico, l’onirico, i segni, i miti e anche i fantasmi nutrono e concorrono a regolare la nostra nutrizione. Nell’atto alimentare uomo biologico e uomo sociale sono stretti, pesano delle costrizioni multiple e legate da interazioni complesse: costrizioni e regole biochimiche, termodinamiche, metaboliche, fisiologiche; pressioni ecologiche; ma anche modelli socio-culturali, preferenze o avversioni individuali, rappresentazioni, sistemi di norme, codici (prescrizioni e proibizioni, associazioni o esclusioni), “grammatiche culinarie” che governano la scelta, la preparazione e il consumo di alimenti». (Claude Fischler, Présentation, in Communications, 31, 1979. La nourriture. Pour une anthropologie bioculturelle de l’alimentation. pp. 1-3. Testo originale nella foto sotto).

Claude Fischler, Présentation, in Communications, 31, 1979. La nourriture. Pour une anthropologie bioculturelle de l’alimentation.

LIBERTÀ ESPRESSIVA E RICHEZZA DELLA LINGUA

Queste parole di Fischler, apparse sul primo numero della Gola, storico «mensile del cibo e delle tecniche di vita materiale», erano state citate da Luigi Veronelli per ricordare la filosofia che era alla base anche del suo Gastronomo, benemerito trimestrale di cucina e cultura uscito dal 1956 al 1962. La Gola e il Gastronomo sono stati i modelli aulici a cui si è ispirata la mia pratica di giornalista “enogastronomico” negli anni trascorsi al quotidiano La Provincia, e ancora rappresentano l’a.b.c. per chi vuole raccontare il mondo del cibo e del vino. Veronelli ha rivoluzionato il modo di parlare del cibo e soprattutto quello di descrivere il vino, attraverso una straordinaria libertà espressiva, che ha saputo non solo svincolarsi dal politicamente corretto ma anche e soprattutto agganciare il pubblico. Descrivendo il Krug Vintage del 1976, per «Il Vino», rivista dell’Ais (Associazione italiana sommelier) diretta dal giornalista friulano Isi Benini, aveva scritto addirittura così: «Bouquet maschio, diretto, elegante; netto, malizioso e conturbante, sentore di sperma».
La lezione di Veronelli deve essere viva ora più che mai, insieme a quella del vero «optimus potor», vale a dire il raffinato padre della nuova sintassi del vino Paolo Monelli, che avverte: «La ricchezza della lingua italiana offre ai critici di qualsiasi disciplina l’opportunità di non ripetersi e di evitare il ricorso esasperato a tecnicismi e a neologismi che, sempre più spesso, allontanano lettrici e ascoltatori».
Niente di più vero e anche tale, necessaria considerazione rappresenta un abbiccì: innanzitutto per questo sito, le cui aree sono immuni dai linguaggi settoriali, così frequenti, purtroppo, a tutte le latitudini e, maggiormente, in contesti come Lo Sport e l’ippica (vedi  Fil-ippica)

SODDISFAZIONE DI ESISTERE, PASTA E CAVIALE

Questa sezione si apre dunque all’A.B/C, l’ars (l’arte che rimanda senz’altro alla τέχνη [téchne] dei greci) bibendi (del bere) e coquendi (del cucinare), punta al gusto come «atto del giudizio» perché «separa ciò che è buono da ciò che non lo è» (ancora Veronelli), unisce vino e cibo alla cultura e fa rotta verso la gioia: «Non c’è nulla – scriveva sempre Veronelli – che possa spezzare il legame fra cucina e desiderio di felicità. Mangiare è una cerimonia necessaria per vivere ma anche per essere soddisfatti di esistere».

Ezio Santin – Fagottino di pasta fresca ai frutti di mare e caviale Oscietra

L’icona di A.B/C è un regalo di Ezio Santin, uno dei nomi più eminenti della gastronomia, che mi onora della sua amicizia: il fagottino di pasta fresca ai frutti di mare e caviale Oscietra è ancora una bandiera del celebre cuoco, proposta all’Antica Osteria del Ponte di Tokyo.
Pasta e caviale costituiscono un connubio d’oro, tanto caro a un’altra personalità della cucina italiana che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare. Gualtiero Marchesi, già citato al principio di questa pagina, proponeva dei meravigliosi spaghetti «cotti, raffreddati, risalati, accarezzati da un goccio d’olio, con erba cipollina e un bel cucchiaio di caviale sopra». E mentre i blinis, tradizionale accompagnamento del cavaliale in Russia e Iran, intervengono sul sapere del caviale, la pasta riesce a esaltare il sui prezioso compagno come nessun altro sa fare: «È il caviale – diceva con fierezza Marchesi – che deve ringraziare gli spaghetti se diventa così buono».

VERITÀ, FORMA E MATERIA

Quello che è buono da mangiare, da bere e da pensare si ritrova qui, nell’A.B/C di un sito impegnato a distinguere (cioè gustare) e a distinguersi in un mondo troppo spesso propenso a uniformarsi alle tendenze dominanti anziché indirizzarsi alla valorizzazione di peculiarità uniche. Se l’industria multinazionale tende ad appiattire la sfera sensoriale, attraverso l’omologazione di profumi, forme, colori, consistenze e sapori, è necessario riaffidarsi  ai nostri cinque sensi: ascoltando (e auscultando), vedendo, toccando, annusando, assaggiando. La parola d’ordine di Ars bibendi/coquendi» sta nell’abbiccì del «gustare», cioè «avvertire e distinguere» quella che Marchesi definiva la «vera cucina» e cioè «la cucina della verità ovvero della forma quindi della materia».

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